La
tine
La tinacce, la chiamava
nel suo dialetto Angiolina, ragazza madre d'altri tempi, cacciata di
casa e serva per tutta la vita (ma questa č un'altra storia) e
alludeva alla tine di legno per il bucato grande nghe la
culate.
Sollevata su un
basamento non tutto chiuso per permettere la fuoriuscita della
lisciva dal buco che aveva sul fondo e che si chiudeva nghe nu
stóppele nella tine si disponevano i panni insaponati,
dopo che erano passati per il prelavaggio, lu ddemmullą, e
sul tutto si versava bollente l'acqua passata per la cenere, la
culate appunto.
Si levava un fumo
caldissimo misto a un profumo intenso di sapone.
I panni restavano a
bagno per tutta la notte, si "cacciavano" il giorno seguente,
passavano per pił sciacquature, si stendevano ad asciugare, si
covavano con gli occhi e si curavano con le mani per l'intero
giorno.
Il rito aveva cadenze
settimanali, bimensili o mensili, a seconda della "pulizia"
della donna, si diceva.
Il sostantivo disponeva
di un accrescitivo-peggiorativo, lu tinacce, usato in
campagna per mosto e altro e di due diminutivi: la tinucce
che serviva per un bucato pił modesto (ma c'erano tinucce
anche per lavare la verdura) e la tinelle per portare acqua
alle bestie.
Tine, tģnucce e
tinelle furono definitivamente soppiantate nell'uso prima dalle
"bagnarole" di zinco e poi da quelle in plastica.
A.M.