La frèzze

   Si emancipavano i ragazzini di un tempo allorquando ereditavano dai fratelli maggiori l'arma per le scorribande o erano in grado di fabbricarsene una propria.

   Di certo quella ereditata aveva una storia dall'ampia letteratura così che insieme all'esibizione della stessa si poteva enumerare, tra l'invidia di tutti, una lunga serie di prodezze attestate sull'albero di famiglia.

   Grande momento era quello in cui finalmente si stava nel gruppo non più guardato "gne nufraffóse", ma alla pari, "nghe la frèzze" infilata nella cintola dei calzoncini spesso riciclati e l'aria spavalda di chi intendeva far capire agli altri la definitiva uscita da la "citilanze".

   Costruirsene una non era difficile, ma richiedeva diverse abilità, non ultima quella dì saper essere amici di qualche artigiano quando non c'era la possibilità di arrangiare in casa (ed era il più delle volte) un pezzo di cuoio per trattenere la pietra da lancio e le strisce di "camera d'aria" per le molle.

   La maestria, però, era quasi tutta nella preparazione della forcella rigorosamente di legno. Bisognava individuarla della giusta grandezza, robusta e resistente, armonicamente biforcuta, tagliarla con occhio sapiente e mano esperta, ripulirla della corteccia, levigarla amorosamente.

   L'arma non era poi tanto innocente e il suo uso richiedeva mira precisa e attenta. "Lu colpe parte ma n'zi sa addò casche", ammonivano i grandi, perché spesso a rimetterci non erano solo grondaie, tetti, nidi, "passaritte e firlinghelle", ma in più di un caso l'arma appunto, male usata, si era rivelata micidiale. È interessante, forse, ricordare che nel dialetto più antico "la frèzze" nella sua più antica versione era, a seconda delle località, "la mazzafronte", "la mazzafrónne", "la mazzafrónte".

   Ed era stata pur sempre l'arma di Davide!