La pantāfeche

 

   - Curre a resbejā' nonne ca j'a ite la pantāfeche! -

   Un ansimare sordo e roco proveniva dalla camera del nonno, giā a letto da un pezzo, mentre donne e bambini in cucina tiravano la serata tra faccende, rosarî e favolette per non andare a letto "nghe le halline".

Per ubbidire bisognava farsi coraggio, perché nel breve tratto che separava la cucina dalla stanza (lande la porte aperte ca ci vide!) riaffioravano paurosamente le non univoche rappresentazioni de "la pantāfeche" a mezzo tra una strega, un fantasma di donna cattiva e un ancor pių misterioso "refčre" che, cavalcando lo stomaco di una persona addormentata, cercava di soffocarla.

   - Che vič facenne gne 'na pantāfeche! - si diceva a chi si aggirava nottetempo per le stanze di casa e veniva sorpreso, mentre "pare na pantāfeche" era detto dė persona particolarmente brutta, vizza e scarmigliata.

   In quella aulica tragedia pastorale che č la Figlia di Iorio, il D'Annunzio fa dire a Candia:

   Figlio, qual č la pena che ti accora?

   Il sogno incubo forse ti fu sopra?"
ma il suo traduttore, scaltrito nella conoscenza del dialetto, restituisce l'espressione alla sua autenticitā:

   "Fijje che péne tî dentr’a ‘ssu core?

   La pantāfeche sopre t'č menute?".