Lu civúleche

 

   Termine tra i più sorprendenti del les­sico dialettale abruzzese (variamente registrato: "ciuvúleche" o “cevóleche") e, ormai, tra i meno usati, è tuttavia tra quelli che meglio esprimono un tipo di vita relazionale in via di estinzione, per non dire già sepolta.

   Vita relazionale nella quale la solida­rietà era il risultato dì una non fittizia condivisione di problemi che, se pur individuali, erano vissuti in dimensione corale così che il quotidiano del singolo era il vissuto della collettività.

   Vita relazionale che non mortificava acume, intuito, genialità, capacità, senso dell'ironia e dell’autoironia, sarca­smo e quant’altro può riuscire peculia­re, che, insomma, non omologava.

   Nel recupero certo non facile dì tutto ciò si colloca la possibilità di comprendere fino in fondo il significato più proprio di "lu civúleche".

Ma che cos’è "lu civúleche"?

   Una notizia ghiotta passa attraverso misteriosi tam-tam e si diffonde tra mille apparenti circospezioni? "Si civúleche".

C’è movimento in piazza, nel vicolo, nella strada perché persone si raggruppano, si scambiano domande, informa­zioni e correnti? "Ci sta nu civúleche!".

   Un crocchio di comari parla e lo fa con mimica particolarmente allusiva? "Chi sa che ttè a ciavulècà’!".

   L'osservatore vede il movimento, percepisce il brusìo, immagina i contenuti, ma "lu civúleche non dà mai la certezza in termini reali di ciò di cui si sta parlando e del modo in cui se ne sta parlando.

   Connesso alla voce verbale "ciavilijà’” o "ciavelijà’”,,equivalente dell'italia­no "ciarlare", in senso figurato può es­sere rapportato a "ciávule" o "ciávele", altro nome per la "mangínele", lo stru­mento con cui si gramolavano le fibre naturali.

   Non mi sarei ricordata, di questa paro­la se Walter non l'avesse usata. Perciò

gliene sono grata.