Lu vraçire
"Se se ne va la luce, séme
fritte; a cquante je mìttéme
a lu lette! Nen ze po’’ appiccià’ niente dentre a ste case, manghe nu vraçire".
Battute ricorrenti durante il lungo e rigido inverno tra abitanti di
condomini deliziosamente (ma per altre stagioni) ariosi e ventilati.
“Lu vraçire" faceva parte dei regali più
ambiti e ragguardevoli per una
sposa (ja purtate nu belle vraçire!), pressocchè indispensabile per riscaldarsi durante l'intero
arco stagionate dal tardo autunno a primavera inoltrata, regolato nell'accensione
e nell'uso a fasce orarie, a seconda dei mesi e del rigore dei giorni.
Troneggiava in mezzo alla cucina (ed era
fonte anche di dolorosi incidenti) soprattutto nel pomeriggio quando,
mantenendo appena il fuoco del camino con gualche legna, le donne sedevano per
un po' a sferruzzare o a cucire attorno al braciere senza "vuscicarle
troppe" per non
far consumare in fretta le "ddu’
palélle de carvunélle" con cui era stata alimentata la "ciniçe"
ancora calda. Ma sul più bello
qualcuno cominciava: "Ti siè
‘ncufanale sopr’a ssu vraçire!
Mo le vide le vacche che ti fa!"
E già! Proprio antiestetica la carta geografica di
ghirigori bluastri ben visibile sulle gambe una volta smesse le calze lunghe pesanti.
Mio nonno, che si era convertito all'uso più raffinato dell’«asse
de coppe» (“Le te’ pure don Mìcchéle Magne!"),
per lui anche più funzionale ("m’ariscalle meje le mane e le cóchele de le jenuocchìe"),
"lu vraçire"
l'aveva messo al bando. Perciò invidiavo
i miei cugini che potevano godersi, quando facevano i compiti, il bel calduccio
che saliva da "lu
vraçire
sott'a la tàvele".