Giuseppe de Berardinis

   Per prima cosa mi preme ringraziare la prof.ssa Adelia Mancini, che ci ha fatto dono di due suoi scritti, che eleveranno il livello culturale di questo sito e poi iniziare a proporvi questa sua relazione, pubblicata su "Rivista Abruzzese" (LXVIII - 2015 - N. 4.

   La relazione tratta magistralmente la figura di un cittadino sanvitese illustre e, purtroppo, sconosciuto alla maggioranza dei nostri concittadini.

   Parliamo del prof. Giuseppe de Berardinis, nato a San Vito Chietino il 3 maggio 1915.

 

"Desiderio di canto"

La semplicità è bella perché spessissimo

non è altro che naturalezza; cioè si chiama

semplice una cosa, non perch'ella sia

astrattamente e per sé medesima semplice,

ma solo perché è naturale, non affettata,

non artifiziata.

G. Leopardi, Zibaldone di pensieri.

 

   Desiderio di canto non è solo il titolo di una delle prime pubblicazioni di Giuseppe De Berardinis, ma è lo stigma di tutta la sua lunga e feconda stagione letteraria.

   Ci troviamo di fronte a una poesia che nel proporre proiezioni interiori, lontane da mitologie e falsificazioni, aspira a plaghe serene "dove vive la pietà e ogni orgoglio tace". Un'analisi introspettiva che nel rapporto tra l'amore per la vita e per gli altri e il desiderio di solitudine contemplativa è continuamente tesa a raggiungere la "letizia" che nasce da "pienezza di spirito", da limpida armonia tra sé e il mondo, tra spirito e senso. Un'opera, quella del De Berardinis, che non risulta facilmente catalogabile perché la ricerca stessa, non circoscrivibile a modelli definiti (anche se talvolta dichiarati, come nel Quaderno delle imitazioni), propone risultati in cui gli echi degli autori amati, dai classici ai contemporanei, s'intrecciano e sfumano in una peculiarità indipendente, quale solo possono dare letture finissime e sedimentate. E tuttavia nel fertile humus letterario che questa poesia nutre non si può non rilevare quanto incisive risultino la lezione foscoliana e quella leopardiana del "canto", nonché quella di altri autori, della nostra letteratura, oggetto e materia di lunghi anni di magistero.

   "Carattere schivo, appartato, lontano da vanità e apparenze" (E. Giancristofaro), Giuseppe De Berardinis è nato a San Vito Chietino il 3 maggio 1915, ha conseguito la laurea in Lettere presso l'Università di Roma e le materie letterarie ha insegnato nei Licei di Lanciano, Pescara, Roma. Alla conoscenza della sua personalità e della sua opera ha nuociuto "il suo volersi tenere sempre lontano da qualsiasi forma, non diciamo di esibizione, ma di semplice apparizione" (G. Nativio).

   Al Giardino dell'ombra (G. Carabba 1948), suo esordio letterario, seguono Fieni magri (ed. Quadrivio 1962) e, tutte pubblicate dalla Casa Editrice Rocco Carabba, le raccolte successive: Concerto variato (1973), Desiderio di canto (1982), Parole all'albero (1982), Aghi e velluti I serie (1985), II serie (1986), III serie (1987), IV serie (1988-1992), In qualche luogo (1993), Di là da nuvolo e sereno (1994), II pellegrino d'anima (1994). Postumi Il quaderno del Nulla (1995) con prefazione di Giovanni Nativio e Il quaderno delle imitazioni (Rivista Abruzzese. 2008) con presentazione di Emiliano Giancristofaro.

   È morto a Lanciano il 9 settembre 1994, la città "ospite"

"cara [...] perché in te ho sognato,

in te mi son cercato con trasporto

furore e pazienza,

pur se il mio amore di te è geloso

e non soffre parole".

   Pubblicato in Parole all'albero, AI paese d'infanzia è il testo che più diffusamente assomma i motivi della poesia di   G. De Berardinis.

   Il lungo componimento (10 sezioni con un numero variabile di quartine di endecasillabi) è dedicato a San Vito, "il paese sospeso nell'aria" che lo vide nascere, crescere e tessere "una storia scritta sui muri".

   Nella trama del tempo restano intatti l'odore dei venti e del cielo, la topografia, i volti e le presenze. Una terrazza aperta sui tetti per osservare e sognare; suono di campane, stridio di rondini, canto di fontane. Avventure, scoperte, sbrigliate fantasie. Su tutto domina il mare che sembra salire sino alla finestra, portando fragranze che si spandono dagli scogli lucenti di sole.    

   Canta ancora nel ricordo una "rossa fanciulla" e ammalia il ritornello della vecchia nutrice, mentre il colore del tempo si è accumulato sulle cose. Vivissima è già la consapevolezza, in queste sere quiete della lontana adolescenza, che la poesia, anelito a un mondo inesplorato, è l'eterno contro l'effimero. Cresce l'ansia "non eludibile di un canto" che scioglie "ogni interno nodo" e allora si può ascoltare il proprio cuore che batte all'unisono con il cuore del mondo.

   Così, lungo tutto il suo itinerario poetico, contro la vanità delle fedi umane, al di là della "muffa del tempo", De Berardinis indica antidoti potenti nell'"inutile poesia" che fa balenare lumi di speranza, nella riscoperta "paziente" della tenerezza d'una parola, nell'ascolto del "monito che sale dalle cose", nel cantare la luce dei mattini, la dolcezza delle sere, le memorie "pallide" del cuore. Del potere del canto il poeta offre una sintesi mirabile nel componimento omonimo della raccolta Desiderio di canto.

   Il canto supera i limiti che chiudono l'esperienza umana per accedere a quella terra di nessuno dove vita e morte si confondono, regno dell'infinito silenzio, e può paragonarsi a "quell'onda di pianto che in cuor pullula improvviso". "Luminosa verità" "pienezza immortale" in cui si annulla il presente e si annullano i "tormentosi desideri che dentro noi fan ressa".

   Nella memoria riaffiora, così, qualcosa che sembrava perso.

   Catartica e liberatrice è la parola che si fa canto nel silenzio e nella solitudine e, nelle plaghe serene

"dove vive la pietà

e ogni orgoglio tace",

essa libera dall'inferno del cuore.

   Si spoglia della voce, diventa aerea e leggera, capace in "un baleno di fissare anche l'ombra dei sogni". Un'aura religiosa avvolge l'uso della parola che non va sprecata, perché poche sono le parole che contano, vive e ispirate, fertili semi che, affidati al soffio di grazia di un concerto mattutino, possono filtrare un riverbero "dell'alta verità di cui rifulgono le stelle".

   Nella sua "trepidità" la parola è fresca e lieve, nota musicale armoniosa che nella dissonanza dei giorni fa ritrovare la sintonia con se stessi e con le cose, sconfiggendo nel contempo violenza e tracotanza. Con il suo indefesso lavoro il poeta cerca di trovare il ritmo giusto, di "sdipanare" il groviglio perché possa rifulgere "l'interna verità" e, nella transitorietà del tutto, il tempo possa apparire eterno. Le pure cadenze della letizia incontenibile del canto sublimano la percezione dell'"eterna verità".

   Nessuna improvvisazione sigla questa poesia, bensì l'opera paziente del poeta, facitore provetto, che in forme metriche perfette e con una lingua nobile e preziosa, scopre, ricopre, riscopre, contempla, sfronda di ogni ridondanza, fa chiaro sulle oscurità perché attraverso il suo canto possa percepirsi "un brivido di eternità".

   La ricerca ultima è, infatti, quella della parola semplice che faccia risplendere la luce del "lume mattutino". Nella sua leggerezza la parola rende libero lo sguardo, puro l'incanto della "foglia sospesa" e cancella "la rapina del tempo". La ricerca si fa estrema laddove, come in Concerto variato, il poeta dichiara di voler apprendere un nuovo linguaggio "assoluta coincidenza fra l'apparenza e la realtà" dove ogni parola si faccia "raggio di luce" per cui dal buio fondo possa emergere "l'intera verità". E alla "bella verità", alla "lucente verità" egli vuole umilmente servire ed essa vuole ritrovare come "fresco diamante" sepolto nel profondo buio delle coscienze. Attraverso il lavoro di "sfrondamento" e semplificazione di ciò che è o appare soverchio, nella tensione alla luce che vinca il buio, il De Berardinis approda a una semnotēs, a una simplicitas che è classica grazia e compostezza.

   Nel "quotidiano naufragio" resiste il desiderio semplice che le parole possano crescere sotto un "empito d'amore" fino a diventare "ebbrezza" e "letizia di canto". Nato nel paese del mare, De Berardinis il mare canta nel variare dei colori e delle stagioni, nei suoi umori spesso impercettibili, ma non per chi da sempre sa riconoscerne le note.

   Nitide nella memoria scoppiano, all'improvviso, nella "flagrante fissità d'un sogno" le immagini della vela bianca e sola, dei granchi "lesti predatori", dei ciuffi d'alghe, della riva rocciosa, degli "incredibili" mattini dell'infanzia che gli rivelarono il mare nella sua grandezza. Per la sua amata creatura denuncia

 "la marea montante, quella

che fa capo alla triste indifferenza",

l'implacabile cemento che soffocherà mortelle, giunchi e pini.

   Da un mondo così infido spariranno presto anche bellezza e poesia.

   Con l'amore infinito per il regno di albatri, gazze, sule e cormorani, lo attanaglia l'angoscia per l'eccidio continuato di inermi e innocenti creature che gli rivela la vera natura dell'uomo "complice spietato" che tutto "contamina, saccheggia e annienta con la sua rapacità".

   Tuttavia il poeta mai desiste dalla ricerca di un paese nuovo dove il sole risplenda "dell'eternamente umano" e ognuno sia libero e felice e possa riappropriarsi della "spontaneità" del bimbo che

"ogni cosa

fa sua senza impaccio".

   Protagonisti di molti componimenti i fiori, i semplici fiori di campo, gli alberi, interlocutori privilegiati (cito solo il bellissimo

"ho l'occhio perso dietro

lo svariare d'un pioppo"),

gli animali, i piccoli insetti, il rospo "creatura di grazia" a cui rimanda "palpiti fraterni", non attestano tanto la relazione col modello pascoliano quanto l'ansia di conoscere creature, "fedele specchio" del suo essere, più che gli uomini

"in cui nulla di nuovo

più scopro, semmai tutto

di vecchio, spaventosamente vecchio."

   Nella Prefazione a Il quaderno del Nulla, Giovanni Nativio rileva come "il titolo possa fuorviare il lettore. Il "Nulla" non è quello metafisico che, anzi l'orizzonte  si colora spesso di positive certezze e la problematica esistenziale non è mai disgiunta da un sempre vigile impegno civile".

   Tuttavia, nell'ora del crepuscolo, seppur pacata, pregnante si fa la riflessione sul senso della propria vita e un afflato religioso pervade molti dei testi. Una serena meditatio mortis attraversa il componimento XCIII, per cui

"Morire non è una parola.

È un allenamento, un esercizio quotidiano

che comincerà assai presto e che bisogna

portare avanti con coraggio uguale.”

   E la preghiera si fa sommessa e umile richiesta nell'eco del brano evangelico:

"Ma se ho levato qualche volta a te

il pensiero, concedimi di stare

all'ombra grande di un Tuo sicomoro".

   Anche l'interrogativo dinanzi al mistero si spegne in un desiderio di sosta e di pace:

"che io mi sieda all'ombra

d'un albero fronzuto

quando sarà venuto

il momento, Signore,

d'entrare nel Tuo regno

(se mai ne sarò degno)".

   Concludo questo mio ragguaglio con la citazione del componimento XXXII dal Quaderno delle imitazioni, uno dei sette, tra i quaranta della silloge, a non dichiarare l'autore imitato perché suggella con rara coerenza la lunga stagione poetica.

"Colata a picco in un mare di scogli

la giovinezza è già il ruvido inverno.

Non c'è più nulla, anima, che t'invogli

fuorché in cielo quei brividi d'eterno".

   Infatti, per affermazione stessa del poeta, "la molla dell'ispirazione risiede in un sentimento doloroso della vita vista in quei momenti irripetibili di vera pienezza, di alta e profonda felicità, purtroppo transitori, che incidono sulla nostra psiche, e che appunto così fugaci, sono essi stessi eterni, destinati a tornare continuamente nella memoria, destando inevitabile rimpianto.

   Questo sentimento [...] non è altro che quell'unità d'ispirazione in cui s'identifica e conferma l'autenticità della vocazione di ogni artista e in particolare trova espressione la mia fede nella poesia" (...E qualche confidenza al lettore, da Di là da nuvolo e sereno).

Adelia Mancini