Prefazione

Si leggono piacevolmente i versi di "Scimmadette!,, 44 componimenti in dialetto sanvitese di tal "Salvatore di Pilose", editi da "La Ginestra", preceduti e seguiti da dotte e puntuali note del curatore, a cui (piace ricordarlo) ci lega franca simpatia, non foss'altro perché nata in più verde età, per complicità paesana, nel corso di uno straordinario rapporto docente-discente.

E dunque il curatore riferisce in bella prosa aulica, memore dell'ingegnosa trovata dello scartafaccio di manzoniana memoria, la vicenda del quaderno dalla copertina nera e dai bordi rossi (quelli che opportunamente inumiditi servivano alle bambine per tingersi le labbra nei lunghi giochi dedicati al travestimento), quaderno d'altri tempi ed or di moda nel "revival" con finalità diverse da quegli strumenti umilissimi. L'abile "trica" non riesce però a nascondere a lettura più attenta che il brogliaccio non esiste in realtà, bensì il "Salvatore" in questione, il sanvitese sagace osservatore della realtà quotidiana, sornione la sua parte, sorridente e ammiccante, screanzato quanto basta, nell'occasione trovi materia per i suoi versi.

È il gene avito di contadini e marinari, più marinaro che contadino (lo dichiara inconsapevolmente la conoscenza tecnica del linguaggio marinaresco) a renderlo tenace, paziente, spudoratamente franco nella denuncia di vizi e difetti, nel taglio fulmineo delle fisionomie, nello schizzo rapido delle situazioni. Nessuna tradizione letteraria sembrerebbe sottendere questa poesia, eppure "Salvatore" non è ignaro di lettere e se la dialettalità gli appartiene, appunto perché avita, e trova nell'uso un fresco sapore di mare e barche, il nostro sembra aver letto poeti satirici e non solo dialettali. L'impressione può derivare dalla nostra deformazione professionale, ma il "fulmen in cauda" di molti componimenti sembra comprovare il fatto di trovarci in presenza di un estro brillante sì, ma anche di buone letture.

"Salvatore" sa usare quel componimento che, se pur frequente nella poesia dialettale, è di dotta derivazione e solo poche volte si misura con altra tecnica compositiva; e sa usare il "pastiche" linguistico, sì da dar vita in "Turista fai pipì..." a una esilarante comicità attraverso il dialogo tra il turista assillato dal bisogno corporale e la tronfia ottusità del vigile burocrate e testone.

Il "Paese" è messo a fuoco nella disamina dei rituali di un'amministrazione in agonia, nella polemica serrata con l'entourage della "signora debbutate", nella compiaciuta dissacrazione del personaggio in questione, nei conversari ameni da porta a porta nello sfondo dei vicoli e del "colle". I politici sfilano con l'improntitudine che mai arretra, si muovono i pupi nella crassa ignoranza del potere tra lo stupore attonito o l'irato risentimento delle comari. Sorriso bonario e simpatia malcelata accompagnano talvolta la maliziosità di certe poesie ("L'impresario", "Cavalier Antonio"); rabbia incontenibile trasuda da quel sapido e delizioso componimento che è "Al mercato"; metafore salaci schizzano velocemente il dialogo, tutta naturalezza di "za cummà" e la "commaruccia" in "Erboristeria".

Del "paese" conosce a meraviglia usi e costumi, anche un po' datati, ma che creano un ironicissimo contrasto con il "bon ton" acquisito in quel di Bologna da "Debbra Rumine", studentessa universitaria che ripudia il succhiare rumoreggiante dei liquidi da parte della madre che per festeggiarla è andata a dormire a "li du la notte", dopo aver preparato dolci, ammassato "taccunitte" e cucinato a brodo una gallina "pi sett'ore".

Il curatore puntualizza che "non si trova una sola lirica, una sola poesia che esprima, in prima persona, sentimenti dolori o gioie soggettive, private" (pag. ??), eppure chiunque sia "sanvitese" non può non avvertire come lo sgranarsi dei "ricordi" qua e là affioranti si accompagni a una larvata malinconia per la violazione che di certi luoghi è stata fatta, per la cancellazione brutale di una topografìa nella quale potevano riconoscersi le radici ed essere ridisegnata la planimetria del proprio essere. Brillantemente, ma non senza amarezza si fa apparire sulla scena de "La porchetta" "nu bardasce nghi na lume / chi jave pi piluse a la scujre". E vengono in mente figure di adolescenti di altri tempi, asciutte e bruciate dal sole che guizzavano sugli scogli come pesci in un'unica armonica soluzione di continuità con il mare.

In cuor nostro vorremmo che l'identità vera di "Salvatore" fosse appunto quella di quell'adolescente che, lume in mano, stana e afferra pelosi in una gara talvolta improba, ma pur sempre giovanilmente entusiasmante. (Adelia Mancini)

Novembre 1993